Avversità in infanzia e professioni performative

Può l’esposizione a esperienze avverse nel periodo dell’infanzia avere influenza sull’esperienza che un artista performativo fa quando è sul palcoscenico?
Un predisposizione all’ansia o alla vergogna possono essere influenti sulla performance? Cosa succede durante la performance all’emotività dell’artista ed è questa influenzata dalle sue esperienze traumatiche infantili o adulte?

Schedatura di un articolo di Thomson, P., & Jaque, S. V. (2018): Childhood adversity and the creative experience in adult professional performing artists. Frontiers in Psychology, 9, Article 111.
https://doi.org/10.3389/fpsyg.2018.00111

Introduzione

Lo studio presentato da Thomson e Jaque ha come obiettivo quello di verificare se l’esposizione a esperienze avverse nel periodo dell’infanzia (ACE: Adversity Childhood Experience) possa avere influenza sui costrutti legati all’esperienza artistica, in particolare quelli derivati dalle teorizzazioni di Mihály Csíkszentmihályi quali: esperienza creativa ottimale, propensione alla fantasia e predisposizione al flow. In aggiunta a questi costrutti, le autrici considerano le variabili di esposizioni ad eventi traumatici in età anche adulta e di tratti psicopatologici di vulnerabilità i quali la vergogna e l’ansia, due fattori che studi precedenti hanno dimostrato essere influenti sulle performance in ambito artistico. Le autrici hanno basato questa ricerca in seguito all’analisi della letteratura scientifica preesistente, che evidenzia come l’esposizione ad avversità nell’infanzia (ACE), in particolare a quattro o più tipi di avversità, sia un fattore altamente correlato a un aumento della morbilità e della mortalità a causa di condizioni mediche multiple e problemi psichiatrici. Indagano quindi se questo tipo di esperienze possano influenzare l’esperienza artistica del performer, un professionista che per la natura stessa della sua professione è esposto a fattori di rischio potenzialmente aggravanti quali ansia e vergogna.

Obiettivi e ipotesi di ricerca

La ricerca presentata da Thomson e Jaque esamina la presenza di differenze all’interno di un campione di professionisti delle arti performative, suddiviso in tre gruppi a seconda del numero di esperienze avverse fatte durante l’infanzia: nessuna ACE esperita, da 1 a 3 ACE, 4 o più ACE. La ricerca ipotizza che i soggetti che hanno fatto esperienza in infanzia di un maggior numero di avversità, presenteranno livelli più alti di difficoltà psicologiche e livelli più bassi di esperienze creative positive e di flow durante la performance artistica, ovvero che la presenza di ACE e di problemi psicologici siano un fattore peggiorativo del risultato professionale.

Partecipanti

Il presente studio non ha affrontato una vera e propria fase di selezione del campione, ma ha scelto di analizzare una porzione specifica di un campione, derivato dai partecipanti ad uno studio più ampio e che aveva l’obiettivo di analizzare i diversi effetti fisiologici e psicologici dello stress. All’interno di tale campione quindi, le autrici hanno selezionato e analizzato i risultati relativi alla popolazione dei performer: i requisiti minimi identificati per poter entrare in tale campione consistevano in 5 o più anni di formazione in campo artistico e precedente e comprovata esperienza professionale come performer. Il campione così costruito conta 234 soggetti in totale che si suddividono in attori, registi o designer (n = 83, 36%), danzatori (n = 129, 55%), cantanti lirici e musicisti (n = 20, 9%). La maggior parte del campione è costituita da donne (n = 163, 70%). L’età media dei partecipanti allo studio è di 23,34 anni con un’estensione che va dai 18 ai 59 anni e una distribuzione tra 4 gruppi etnici: Afroamericani (n = 34, 15%), Asiatici (n = 47, 20%), Caucasici (n = 96, 41%) e Latini (n = 54, 23%).

Risultati principali

La prima analisi presentata dalle autrici viene realizzata tramite la comparazione dei risultati ottenuti dal presente studio con uno studio precedente, riguardante la presenza di ACE in un campione più ampio e non comprendente esclusivamente artisti; da tale comparazione viene evidenziato come gli artisti performativi dimostrino un’incidenza significativamente maggiore di abusi emotivi e di negligenze emotive durante l’infanzia rispetto alla media del campione originale.

Una seconda fase di analisi ha previsto la realizzazione di tre analisi MANCOVA sul campione di artisti performativi. Viene evidenziato in questo modo che: (a) non vi sono differenze significative fra i tre gruppi per quanto riguarda l’esperienza dello stato di flow che risulta molto simile in ognuna delle sue sotto-componenti misurate e questo contraddice l’ipotesi iniziale che prediceva livelli più bassi di flow nel gruppo con maggiori episodi di ACE; (b) riguardo il costrutto dell’esperienza creativa, c’è una significativa differenza in 3 delle 8 variabili analizzate, che sono significativamente più alte nel gruppo con 4 o più ACE rispetto agli altri due gruppi e nessuna differenza nelle rimanenti 5 variabili – questo confuta l’ipotesi iniziale che prediceva livelli più bassi di esperienze creative nei gruppi con più ACE; (c) c’è una altissima differenza in 4 su 4 dimensioni analizzate nell’area delle variabili psicopatologiche (anxiety, shame, fantasy e traumatic events), che risultano più alte nel gruppo con 4 o più ACE comparandolo sia con il gruppo che non presentava ACE, sia con il gruppo con 1-3 ACE e questo conferma le ipotesi iniziali che predicevano livelli più alti di difficoltà psicologiche nei gruppi con maggiori ACE.

Per quanto riguarda l’assenza di differenze tra i gruppi nelle misurazioni riguardanti il flow, questa potrebbe essere relazionata al fatto che gli artisti performativi professionisti sono sottoposti a lunghi anni di preparazione e disciplina fisiche e mentali, il che potrebbe quindi avere un’influenza positiva sull’esperienza che il campione fa del flow; questo è suggerito in particolare dall’assenza di differenze nella parte di questionario in merito a pianificazione e perseguimento degli obiettivi professionali e capacità di concentrazione sui compiti di prossima realizzazione. Molto interessante, soprattutto considerando le differenze tra i gruppi nei costrutti di psicopatologia, l’assenza di differenze tra i tre gruppi nella capacità di mantenere il senso di autocontrollo durante la perdita di auto-coscienza tipica della performance.

Venendo invece alle differenze tra i gruppi, lo studio dimostra come l’esposizione alle ACE, sia correlata ad una più forte percezione dell’esperienza creativa e ad un processo creativo più intenso. In particolare, gli artisti con 4 o più ACE hanno una maggior consapevolezza della perdita del sé (loss of self-consciousness) durante la performance, un senso di connessione universale più forte e consapevole e un’emotività più intensa, ma al contempo stabile, che permette di avere contezza delle proprie abilità tecniche ed espressive, il che comporta uno stato di concentrazione e di ispirazione più profondi. Gli artisti con 4 o più ACE sono di fatto più consapevoli del proprio processo creativo e sono in grado di apprezzarlo e di riconoscerlo come una potente forza che agisce sulle loro vite, rendendolo così simile ad una risorsa psicologica.

Riguardo le differenze registrate per i quattro costrutti dell’area psicopatologica, bisogna considerare alcuni aspetti importanti che rendono le dimensioni correlate. I performer dimostrano una maggior predisposizione alla fantasia, il che implica da un lato una maggior creatività, ma dall’altro anche una più forte esperienza soggettiva di ansia e di vergogna. Ansia e vergogna sono inoltre due esperienze più frequenti tra i performer rispetto ai non performer, per la natura stessa della professione della scena. Questo, unito alla maggior incidenza registrata di traumi in età adulta, rende i soggetti con ACE psicologicamente più vulnerabili e sensibili.

Conclusioni

Considerando che: (a) gli ACE, presenti nel campione, sono correlati ad una maggior mortalità e morbilità in età adulta, in particolare sono fattori predisponenti o scatenanti patologie quali disturbi del comportamento alimentare, disordini di personalità, comportamenti autolesionistici, depressione, ansia, vergogna e rabbia, (b) la natura stessa della professione del performer espone gli artisti a esperienze di vergogna e ansia superiori a quelle di altre professioni, (c) gli artisti esaminati abbiano dichiarato di essere anche stati vittime di traumi in età adulta, dobbiamo concludere che essi si trovano in un’alta condizione di rischio psicologico. Nonostante questo però, va anche evidenziato come alcuni degli aspetti negativi discussi siano controbilanciati da fattori protettivi (predisposizione alla fantasia) e da risultati creativi coinvolgenti e soddisfacenti che qualificano l’esperienza del fare arte come risorsa.

Fornire un ambiente ottimale all’istruzione artistica dei giovani performer è centrale per proteggerli da future difficoltà emotive; spesso gli ambienti di formazione artistica possono essere traumatici e addirittura pericolosi: studi evidenziano che lo stress in età infantile causato da un cattivo ambiente sociale è in grado di influenzare l’espressione genetica contribuendo alla creazione di vulnerabilità a patologie anche in ambito comportamentale e fisico. Un ambiente formativo troppo critico e intensamente valutativo, oltre che potenzialmente dannoso, non è efficace al miglioramento dei risultati e al conseguimento degli obiettivi, anzi, è in grado di compromettere le abilità creative, limitare il senso di controllo e condurre fino al ritiro dalle sfide più ardue, compromettendo di fatto non solo il risultato professionale, ma la stessa espressione del talento. Un adeguato supporto ai performer non è importante solo in ambito formativo, ma anche professionale: visto che gli ACE si presentano più frequentemente tra gli artisti che tra i non artisti e che i traumi in età adulta co-occorrono con esperienze di maggior ansia e vergogna, costruire attorno ai performer un ambiente protettivo è un aspetto da non sottovalutare anche in ottica di miglioramento delle prestazioni professionali.

Per il futuro, le autrici evidenziano l’importanza di uno studio su un campione più generalizzabile, che presenti più equità fra i generi e rappresenti altre forme professionali, non solo quelle in ambito performativo.