Depersonalizzazione e arti performative

Aver fatto esperienze di depersonalizzazione è per un artista un elemento che potenzia o che mina la performance artistica? Gli artisti che hanno esperito la depersonalizzazione sono più o meno presenti a loro stessi durante il rapimento della performance artistica? Sentimenti negativi pregressi come il senso d vergogna, sono influenti in questa dinamica?

Schedatura di un articolo di Thomson, P., & Jaque, S. V. (2020): Multifaceted self-consciousness: Depersonalization, shame, flow, and creativity in performing artists. Psychology of Consciousness: Theory, Research, and Practice. Advance online publication.
https://doi.org/10.1037/cns0000228

Introduzione

L’articolo pubblicato da Thomson e Jaque si rifà alla letteratura scientifica che tratta gli effetti della depersonalizzazione e del disturbo da depersonalizzazione e si pone come obiettivo quello di indagare la possibilità che la presenza di sintomi di depersonalizzazione possa incidere (negativamente o positivamente) sulle prestazioni professionali degli artisti performativi e in particolare sulla modalità di esperienza dell’autocoscienza (self-consciousness) al momento della prestazione. Vengono analizzate anche ulteriori variabili quali il senso di vergogna (shame) e la predisposizione al flow. Le basi teoriche che le autrici pongono nell’ideazione della ricerca si riferiscono al lavoro di Mihály Csíkszentmihályi, che nei suoi studi ha ampiamente indagato costrutti quali l’esperienza artistica e la sua componente più interessante, il flow, uno stato in cui si manifestano autocontrollo, perdita di autocoscienza, distorsione del senso del tempo ed esperienza autotelica –  tutti costrutti che vengono valutati all’interno del presente studio.

Obiettivi e ipotesi di ricerca

Considerato un campione composto da professionisti delle arti performative, l’obiettivo principale della ricerca è duplice: da un lato esaminare il costrutto dell’autocoscienza (self-consciousness) e la sua manifestazione, e dall’altro indagare la relazione esistente tra depersonalizzazione, esperienza creativa, flow e vergogna.

Secondo gli studi di Csíkszentmihályi, l’esperienza artistica, si compone di esperienza creativa ottimale, propensione per la fantasia e predisposizione al flow; i performer esperiscono frequentemente queste esperienze, le quali implicano un aumento dei livelli di intensità sia dell’autocoscienza che della perdita di consapevolezza. Lo studio ipotizza quindi che ove gli artisti performativi presentino manifestazioni cliniche di depersonalizzazione e livelli di vergogna aumentati, lo stato di flow sarà diminuito. Lo studio presentato ricalca gli obiettivi di uno studio precedente svolto dallo stesso team di ricerca e basato su una popolazione esclusivamente non clinica di atleti e danzatori e considera nella formulazione delle ipotesi anche i risultati di un terzo studio ad opera dello stesso team che analizzava una popolazione non clinica di soggetti con esperienza di avversità durante l’infanzia (ACE); tali esperienze avverse hanno dimostrato essere direttamente correlata alla presenza di fattori che alimentano il processo creativo, ma anche di non avere relazione con le dimensioni del flow. Poiché però la depersonalizzazione è un costrutto molto diverso dalle ACE, le autrici hanno costruito un nuovo disegno di ricerca al fine di approfondire il precedente.

Partecipanti

Il presente studio non ha affrontato una vera e propria fase di selezione del campione, ma ha scelto di analizzare una porzione specifica di un campione più vasto, composto da artisti performativi, atleti e individui in salute che partecipavano ad uno studio più ampio e che aveva l’obiettivo di analizzare i diversi effetti fisiologici e psicologici dello stress. All’interno di tale campione quindi, le autrici hanno selezionato e analizzato i risultati relativi alla popolazione dei performer: i requisiti minimi identificati per poter entrare in tale campione consistevano in 5 o più anni di formazione in campo artistico e precedente e comprovata esperienza professionale come performer. I partecipanti sono venuti a conoscenza della selezione tramite programmi universitari in campo artistico, corsi professionali e passaparola.

Il campione così costruito conta 214 soggetti in totale, composto da attori (n = 3, 1,4%), danzatori (n = 182, 85%), cantanti lirici (n = 24, 11,2%) e direttori d’orchestra/compositori (n = 5, 2,3%). In fase di analisi dei dati i soggetti sono stati poi suddivisi in due gruppi (non clinico/clinico) in base ai risultati ottenuti nel test Multiscale Dissociation Inventory (MPI). Il sottogruppo non clinico si è composto di 184 soggetti (86,4%) che hanno ottenuto un punteggio al MPI di <20, mentre il gruppo clinico di 29 (13,6%), con un punteggio MPI ≥20.

Risultati principali

I risultati della ricerca relativi all’analisi correlazionale dimostrano che esiste una correlazione positiva tra depersonalizzazione e (a) shame, (b) aspetti dell’esperienza creativa anxiety, distinct experience e beyond personal e (c) il solo aspetto transformation of time relativo al flow. C’è una correlazione negativa invece con gli altri tre aspetti del flow: sense of control, loss of self consciounsess e autotelic experience. La regressione lineare, volta a ricercare elementi predittivi della depersonalizzazione dimostra che nel 21,8% dei casi, la depersonalizzazione è causata da shame e da anxiety.

Dall’analisi comparativa tra il gruppo con e il gruppo senza disturbo da depersonalizzazione (DPD), risulta che il gruppo con DPD presenta maggiori livelli di shame e livelli minori di 3 su 4 fattori del flow: sense of control, loss of self consciounsess e autotelic experience. L’ipotesi di ricerca principale è quindi in parte confermata.

Dall’analisi comparativa risulta però anche che il gruppo di soggetti con DPD e che presenta maggiori livelli di shame ha anche maggiori livelli di creative anxiety, transformation e centrality (aspetti dell’esperienza creativa). Viene quindi confutato quanto atteso dall’ipotesi.

Questo dato presenta delle conseguenze importanti: la non capacità di loss of self-consciousness impedisce di estendere l’esperienza creativa ad una connessione universale, lo stesso vale per la diminuita capacità di sense of control e questi due fattori portano ad una meno ottimale capacità artistica. Anche la diminuita autotelic experience può essere un limite per il performer con DPD poiché suggerisce una mancanza di sicurezza di sé unita ad un non auspicabile coinvolgimento soggettivo nella performance. Relativamente all’esperienza artistica, essa è aumentata in caso di DPD: la DPD potrebbe quindi amplificare l’esperienza percettiva durante la performance, elemento centrale per il senso del sé – questo confuta una delle ipotesi che prevedeva che in presenza di DPD l’esperienza creativa sarebbe stata diminuita. In particolare, con DPD è presente un maggior coinvolgimento trasformativo e un maggior senso di centrality, è la dimensione in cui il processo artistico viene sentito come centrale per il benessere dell’artista. Ne consegue che l’esperienza creativa è ritenuta dai performer fondamentale per dare senso alla propria vita, inoltre l’esperienza creativa è spesso combinata ad un senso di contatto con l’extra individuale. Chi ha DPD trae quindi probabilmente beneficio temporaneo dalla stessa patologia durante lo svolgimento dell’esperienza creativa, che ne risulta amplificata forse per lo spostamento dell’attenzione e dell’autovalutazione da un focus esterno a uno interno. Il processo creativo offre un’espansione oltre la propria esperienza personale ed è considerato un momento unico ed importante: questi fattori indicano perdita dell’auto-consapevolezza anche se sempre senza loss of self-conscousness, da cui ne deriva un’aumentata esperienza emotiva per il performer.

Quanto riguarda la dimensione shame, non bisogna dimenticare che il lavoro dell’artista performativo è associato a un elevato livello di vulnerabilità al senso di vergogna per sua stessa natura. Lo studio conferma che alcuni performer presentano elevatissimi livelli di shame e questa emozione auto-cosciente è guidata dall’esperienza dell’autovalutazione e dal percezione di essere in uno stato di minaccia, tanto che la ricerca sottolinea come la vergogna possa arrivare a un livello tale da generare anche un disturbo da stress post-traumatico. Molti dei performer facenti parte del campione clinico dello studio in oggetto sono stati riconosciuti come a rischio di sviluppare un DSPT causato dalla vergogna e di continuare a perpetrare uno schema di sé basato sul considerarsi inadeguati.

Una scoperta sorprendente consiste nell’assenza in entrambi i gruppi di una correlazione tra la depersonalizzazione e la capacità dei soggetti di entrare in un profondo stato di concentrazione necessario alla realizzazione della performance; questo suggerisce di nuovo che gli artisti performativi sono in grado di trarre sollievo dal disturbo da depersonalizzazione grazie alla performance.

Conclusioni

La ricerca presenta alcuni limiti, in primis rappresentati dai bias che sono presenti nella natura del questionario autosomministrato. Inoltre, poiché il campione rappresenta esclusivamente professionisti delle arti performative per lo più di genere femminile, e poiché non viene indagata la possibile presenza nel campione clinico di altri disturbi che si presentano frequentemente in comorbilità con il disturbo da depersonalizzazione, (es. ansia, depressione, schizofrenia, PTSD e abuso di sostanze), i risultati sono difficilmente generalizzabili.

In futuro, la ricerca dovrebbe concentrarsi su un campione più variegato e dovrebbe indagare anche la covarianza delle comorbilità. Inoltre, sarebbe di grande importanza che lo studio non analizzasse il quadro clinico tramite un questionario autosomministrato, ma tramite una più approfondita intervista clinica effettuata da personale con apposita formazione.

Grazie agli interessanti spunti portati dal lavoro di Thomson e Jaque, la ricerca potrà seguire percorsi di indagine che porteranno risultati proficui alla progettazione dei percorsi di studio offerti dagli istituiti di formazione in campo artistico. Essere a conoscenza del fatto che elevati livelli di depersonalizzazione possono rappresentare non solo una vulnerabilità ma anche una risorsa per l’artista, permetterà di costruire percorsi didattici in grado di aumentare la consapevolezza dei performer delle proprie risorse e di aiutarli a far in modo che la condizione di depersonalizzazione non li porti a compromettere le loro performance